Guido di Leone: chitarra leader, direzione and arrangiamenti
Giuseppe Bassi: contrabbasso
Michele di Monte: batteria
Max Monno, Marco Giuliani, Paolo Magno, Franco Speciale, Vito Abrescia, Gianni Fedele, Gianluigi del Vecchio, Francesco Micunco: chitarre di sezione
Paola Arnesano: voce
Nino di Leone: clavietta
Enzo Falco: percussioni
Seven Come Eleven (Christian)
Jordu (Jordan)
Don’t Blame Me (Fields, McHugh)
Stardust (Carmichael)
I Only Have Eyes For You (Warren)
Perez Mambo (Di Leone)
It Don’t Mean a Thing (Ellington)
I’m Getting Sentimental Over You (Bassman, Washington)
Satin Doll (Ellington)
Another “Do Nothing till You Hear From Me (Di Leone, Arnesano)
Ascoltalo!
Recensioni
Se le chitarre suonano come sax — Cerri “battezza” la big band del PENTAGRAMMA
Un’orchestra di chitarre che swinga come se avesse una sezione di sax. E’ la big band del Pentagramma, la nuova formazione allestita dal chitarrista Guido Di Leone, che ha fatto il suo debutto davanti a una platea affollatissima allo Sheraton di Bari, avvalendosi del “padrinaggio” di Franco Cerri, senza dubbio il “padre nobile” di tutti i chitarristi del jazz italiano.
E c’è ben da sperare che questa formazione possa mettersi in luce facendosi apprezzare ben oltre i confini regionali, poiché oltre ad essere decisamente originale ha più di una carta da giocare, soprattutto grazie ad una serie di arrangiamenti — tutti a firma di Di Leone — capaci di valorizzare al massimo la sonorità della formazione, conferendole uno swing leggero, ma costante. A voler andare indietro con la memoria, del resto, l’unico precedente italiano assimilabile a quello di questa orchestra potrebbe essere il Guitar Madness, il quartetto di chitarre fusion formato, tra gli altri, da Umberto Fiorentino e Lello Panico, che il pubblico barese ebbe modo di ascoltare negli Anni ’80 allo Strange Fruit. In quel caso, però, si trattava di un incontro fra quattro solisti, a loro modo estremamente graffianti, ma forse non molto disciplinati nel lavoro d’assieme. Quella di Di Leone è invece una formazione che merita a pieno titolo la definizione di orchestra, proprio per l’ottimo lavoro svolto sul “collettivo”.
L’occasione della serata inaugurale ha consentito di ascoltare alcuni indovinati arrangiamento di brani come Undecided, Jordu di Duke Jordan, Satin Doll di Duke Ellington o, ancora, Mambo n. 6, un gustoso original dello stesso Di Leone.
Ma il concerto si è ben presto trasformato in una festosa e piacevole occasione di fare musica, anche grazie ai numerosi ospiti che si sono alternati sul palcoscenico, combinandosi in varie formazioni.
Fra queste, piace ricordare almeno il duo di chitarre di Cerri e Di Leone nella indovinata fusione fra i temi degli ellingtoniani I Let a Song Go Out of My Heart e Don’t Get Around Much Anymore, il duo vocale di Paola Arnesano e
Larry Franco su Route 66, il lungo e indovinato omaggio al Brasile di Baden Powell, in cui a Di Leone, Giuseppe Bassi al contrabbasso e Michele Di Monte alla batteria si sono aggiunte anche le percussioni di Enzo Falco e Johnny Vitone
e la nostalgica rilettura di Stardust che ha visto unirsi alla band anche Nino Di Leone (padre di Guido, ndr.) alla clavietta in un gustoso confronto generazionale.
Applausi per tutti a cominciare da Cerri, confermatosi un “gentleman della chitarra”, che ha ricevuto anche un premio alla carriera assegnatogli dalla nascente associazione Research@Press.
Ma soprattutto, un bravo ai componenti di questa orchestra: Vito Abrescia, Marco Giuliani, MaxMonno, Franco Speciale, Gianni Fedele, Francesco Micunco, Gianluigi Del Vecchio e Paolo Magno. Se i progetti di Di Leone riusciranno a
prendere corpo, potremo riascoltarli presto su cd.
Ugo Sbisà, Gazzetta del Mezzogiorno — 21 maggio 2001
Per quanto mi sia sforzato di andare a ritroso con la memoria, non sono riuscito a trovare nessun precedente italiano all’orchestra di chitarre di Guido Di Leone, a meno di non voler considerare come un’orchestra il trio “Guitar Madness” (ndr. U. Fiorentino, L. Panico, F. Mariani) , attivo a cavallo tra gli Anni ’80 e i primi ’90.
Ma è molto probabile che anche al di là dell’Oceano i precedenti siano pochi, per non dire pochissimi. Comunque la si voglia mettere, questa di Di Leone è l’ennesima iniziativa che lo pone sotto una luce diversa nel pur nutrito vivaio chitarristico del jazz italiano, confermando non solo il suo con Franco Cerri allo Sheraton di Bari talento solistico, ma anche il suo tenace spirito d’iniziativa.
Perché questa orchestra è a suo modo il coronamento di un’intensa attività didattica svolta a Bari da Di Leone con il suo “Pentagramma”, anche se questo non vuol dire assolutamente che ci troviamo di fronte al risultato di un buon saggio scolastico, anzi! Sin dal suo esordio, la band si è fatta apprezzare per un livello professionale sottolineato innanzitutto da un “padrino” di eccezione quale Franco Cerri, un sicuro punto di riferimento per più d’una generazione di chitarristi del jazz tricolore.
I quattordici brani che compongono questo cd non hanno bisogno di grandissime presentazioni: sono titoli che appartengono ormai da anni alla storia del jazz, eppure, ascoltandoli negli arrangiamenti di Di Leone, escono come ringiovaniti da una cura che, pur rispettandone le peculiarità stilistiche, ne riaccende gli splendori, talvolta sin troppo opacizzati da un’aurea routine.
Si passa allora dallo swing di un classico come “Seven Come Eleven”, legato al ricordo di Benny Goodman e di Charlie Christian e di “Undecided”, a due titoli tratti dal repertorio di Clifford Brown e Sonny Rollins come “Jordu” (che a sorpresa si illumina di reminiscenze coltraniane) e il bruciante “Pent-up House”.
Il repertorio degli standard è assicurato da titoli come “Don’t Blame Me” e “Long Ago And Far Away”, impreziositi dalla bella voce di Paola Arnesano e “Stardust”, in cui invece si ascolta anche la clavietta di Nino Di Leone, padre di Guido e vecchia volpe del jazz barese. Il jazz “orchestrale” trova spazio con una elegante versione di “I’m Gettin’ Sentimental Over You”, indimenticata sigla dei Dorsey Brothers, ma soprattutto con gli indovinati arrangiamenti degli ellingtoniani “It Don’t Mean A Thing” (bello il ruolo affidato al contrabbasso) e “Satin Doll” che sanno restare sulla strada maestra evitando l’insidia delle banalità.
Concludono la selezione i ritmi danzanti di “Perez Mambo”, che stanno a dimostrare la capacità di Di Leone e compagni di affrontare con gusto e disinvoltura i linguaggi più diversi. E soprattutto di suonare con uno swing degno delle migliori big band, al punto tale che, in più d’un momento, potreste illudervi di cogliere le sonorità di una sezione di sax o di tromboni… tutti ovviamente a corde!
Ugo Sbisà